Testamento solidale: i modelli filantropici europeo e italiano

La cultura sociale europea, in tutte le sue forme, non ha mai condiviso la visione americana che demanda al grande imprenditore privato il compito di “restituire” la propria fortuna alla collettività incentivando tale pratica attraverso politiche fiscali particolarmente generose. Ha invece fatto proprio – anche se in misura diversa a seconda delle varie stagioni politiche ed economiche – il principio della redistribuzione fiscale: è lo Stato, attraverso aliquote alte sui grandi patrimoni (anche oltre il 50%), che deve garantire in prima persona alcune prestazioni sociali di base – tutela della salute, pensione, istruzione – intese come diritti inalienabili dei cittadini. Diritti che, in quanto tali, non possono essere assicurati dall’iniziativa di charities o fondazioni private.

Ciò non vuol dire che non ci siano, anche in Europa, esempi di filantropia e/o mecenatismo privati comparabili per dimensioni con quelli di oltreoceano: si pensi ai francesi Bernard Arnault (Fondation Vuitton) e François Pinault (Bourse de Commerce, ma anche Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia). Tuttavia, avverte il finanziere e filantropo Francesco Micheli, per noi non è possibile ripetere la grandezza dei migliori modelli americani, essendo questi “nati da spazi e compiti che uno Stato più astensionista e molto poco provvidenziale, al contrario di quelli disegnati dalle (social)democrazie europee, ha lasciato a disposizione delle incursioni delle ricchezze private”.

Al tempo stesso, però, lo stesso Micheli (e con lui la moderna scienza economica e sociale) ricorda che da qualche decennio il modello europeo “non ce la fa più a sostenere un sistema di welfare e diritti che sembrava proiettato fino a coprire non solo i diritti sociali fondamentali (la pensione, la sanità, la scuola, il posto di lavoro con la cassa integrazione), ma anche i diritti culturali in senso più ampio. La stagnazione economica, la perdita di posti di lavoro e soprattutto l’inversione della piramide demografica (tanti vecchi, pochi giovani) rendono alcuni obiettivi insostenibili e impongono un maggiore impegno della società civile.

 

La filantropia italiana: familiare e vicina alle comunità locali

Nel contesto europeo la filantropia delle imprese private italiane si è caratterizzata per alcune specificità fin dal suo affacciarsi sulla scena tra seconda metà dell’Ottocento e inizio Novecento. Due le principali peculiarità:

  • ilcarattere familiare, derivante dall’impronta tipicamente familiare del capitalismo italiano, che porta diverse generazioni della stessa famiglia imprenditoriale ad occuparsi di filantropia, perlopiù attraverso Fondazioni create ad hoc e riportanti, spesso, il nome del capostipite/fondatore;
  • l’impegno a migliorare attivamente, in prima istanza, il territorio e le comunità in cui le aziende sono nate, operano e prosperano, nella convinzione che “solo crescendo tutti insieme si cresce davvero”. Questa vicinanza alla comunità locale non impedisce tuttavia ad alcune grandi Fondazioni private di occuparsi di problemi e contesti più ampi i cui orizzonti arrivano a coincidere con il benessere della popolazione mondiale (in particolare delle sue fasce più deboli/svantaggiate) e del pianeta.

Gli esempi storici di grandi filantropi italiani sono numerosissimi. E spesso, di generazione in generazione, arrivano ad oggi. Negli ultimi dieci anni il numero delle Fondazioni filantropiche è raddoppiato (ora sono 1.600), e nel solo 2016 le Fondazioni bancarie hanno erogato oltre 1 miliardo di euro (+10% rispetto ai 936,7 milioni del 2015), mentre le Fondazioni di impresa (131) hanno erogato nel 2015 circa 200 milioni. Sono inoltre cresciute le elargizioni dei High Net Worth Individuals (HNWI), coloro che in Italia detengono un patrimonio superiore al milione di euro: nel 2015 il 91% di loro ha effettuato una donazione (+11% rispetto al 2014) e il 27% ha aumentato le proprie elargizioni (+13%).

 

La filantropia moderna: al servizio delle grandi cause, efficiente, sostenibile

Qualunque sia il modello seguito, oggi la filantropia sta sempre più individuando un proprio spazio, autonomo e al tempo stesso rilevante, di co-protagonista per la soluzione dei grandi problemi che affliggono l’intera collettività. Nel contempo, anche il mondo dell’economia, dell’impresa e della produzione va sempre più comprendendo di non poter prescindere dalla volontà di contribuire a risolvere le grandi questioni che riguardano il pianeta e i suoi abitanti.

Il risultato è che la distanza tra for profit e non profit tende a ridursi progressivamente da entrambi i lati:

  1. da una parte, molte imprese cominciano a perseguire un business più in linea con i valori e le pratiche della sostenibilitàsociale e ambientale, intese non come “costo da pagare” ma come un fattore produttivo da valorizzare ai fini della reddi- tività a lungo termine dell’impresa. Una consapevolezza, questa, accentuata dalla crescente tensione “etica” manifestata anche sul versante del consumo, soprattutto fra i più giovani e i Millennials;
  2. dall’altraparte, per i teorici della filantropia moderna, questa deve sempre più avere una dimensione imprenditoriale e manageriale. Se è vero, come si è visto, che la filantropia nasce dall’“amore per l’essere umano” e dunque dalla volontà di “prendersi cura dell’altro”, questa volontà va accompagnata e seguita da un’alta dose di professionalità e di competenze specifiche, da capacità di analisi e programmazione, da un “saper fare” e, anche, un saper “far rete” che consenta di individuare i partner pubblici e privati, nazionali e internazionali, più adatti a raggiungere, insieme, lo scopo prefissato.